Inclinations

L’arte della catarsi

La Medea di Anthony Frederick Augustus Sandys

Ha fatto discutere non poco il finale alternativo della Carmen messa in scena al Teatro del Maggio di Firenze. La protagonista dell’opera d’arte di George Bizet non muore, ma causa indirettamente la morte di quello che nel libretto originale sarebbe diventato il suo aguzzino, il sergente don José.

Con tutto il rispetto del curriculum del regista Leo Muscato e delle sue intenzioni di denuncia del femminicidio, una prima considerazione sta nell’umiltà che si dovrebbe avere nel mettere mano a un capolavoro di quasi 150 anni. La seconda è sul valore da attribuire all’arte. Educativo? Anche. Ma non necessariamente didascalico. Altrimenti non ci sarebbe mai catarsi.

Aristotele definiva la catarsi nella tragedia come “imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa […] rappresentata da personaggi che agiscono e non narrata, la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”.

Edipo e la Sfinge, Gustave Moreau

Rientrano chiaramente in questa descrizione opere millenarie come la Medea di Euripide, che uccide i propri figli per vendicare l’abbandono di Giasone, privandolo della discendenza, o l’Edipo re di Sofocle, che senza saperlo assassina il padre e sposa la madre. Scendere nell’abisso, affrontare il mostro, sentirsi meglio perché non siamo soli nel nostro disagio interiore. La purificazione del simile col simile.

Concetti ripresi in seguito dalla psicologia moderna, Sigmund Freud ad esempio ha teorizzato il morboso attaccamento alla madre con il complesso di Edipo, anche se appunto i greci ci erano arrivati circa 2000 anni prima. Ma più in generale l’atto di scavare in se stessi, rivivere il trauma. Se ci si riesce tramite l’arte tanto meglio, si risparmia un bel lavoro di analisi, purché si sia in grado di interpretare al meglio quello che vediamo.

Pensiamo di essere più emancipati e progrediti rispetto al passato. È realmente vero? Non è solo una questione di essere espliciti. Rapportandoci alla contemporaneità e alla censura, per i temi trattati, capolavori come Lolita di Vladimir Nabokov o Arancia Meccanica di Anthony Burgess hanno avuto i loro problemi, sia nella versione cartacea che cinematografica – sempre con la regia di Stanley Kubrick. Quanti ostacoli avrebbe oggi una nuova Medea?

È anche vero che trovare argomenti nuovi o trattarli in maniera innovativa non è facile, in migliaia di anni di scrittura è stato più o meno detto tutto sull’animo umano. Ma è a questo che servono i geni, in fondo, trovare vie che nessuno aveva mai immaginato prima. Però, nell’arte, si ricorre sempre meno alla catarsi e sempre più a un anticonformismo conformista. Ovvero a cercare di sconvolgere, scandalizzare a tutti i costi, tanto per farlo.

Maurizio Cattelan, Untitled – Inri

Non è per parlare per forza male di ciò che è temporalmente più recente, ma il paragone tra un cavallo morto con la scritta INRI e il Corpus Hypercubus, crocefisso surrealista di Salvador Dalì, non può reggere. Poi magari tra 50 o 100 anni la percezione sarà diversa, non tutti vengono capiti subito.

Una buona occasione è stata persa dal libro Il bambino indaco e dal film che ne è seguito Hungry Hearts, che hanno trattato le distorsioni della maternità e tematiche più attuali sull’alimentazione ma in maniera fastidiosa, lontana dall’idea aristotelica di catarsi per similitudine, per quanto il regista Saverio Costanzo sostenga esattamente l’opposto. Difficile identificarsi anche per mezzo secondo con il personaggio della madre. Senza parlare delle accuse di essere stati, libro e film, politicamente scorretti contro i vegani – sembra quasi si parli più di anoressia, comunque.

Come se non offendere – chiudendo il cerchio con la Carmen – fosse il punto dell’arte o comunque di una qualsiasi forma di creatività.

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