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La politica degli slogan (ovvero “aiutiamoli a casa loro”)

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La comunicazione politica è farcita di slogan, risentendo delle restrizioni imposte dai social network

Slogan è un termine che deriva dal gaelico sluagh-ghairm. Le due parole significano rispettivamente “nemico” e “urlo”, unite andavano a prendere il significato di “grido di battaglia”. Il lato “guerriero” si è perso, salvo voler fare analogie tra strategie pubblicitarie e belliche. Non a caso, o forse sì, si parla di guerrilla marketing, definizione coniata dal pubblicitario statunitense Jay Conrad Levinson nel 1984 per descrivere tattiche a basso costo, non convenzionali e aggressive che agiscono sulla psicologia del destinatario.

Lo slogan è la prima linea (continuando con il glossario militare) della pubblicità. Spesso fa la differenza nelle scelte degli acquisti fra concorrenti. La sua forza è la semplicità: una media di tre parole, sintetico e diretto, abile nell’insinuare che noi consumatori abbiamo il potere, possiamo decidere, siamo determinanti nella nostra crescita e nella creazione di un futuro migliore.

Just do it” (fallo e basta), “think different” (pensa diversamente), “impossible is nothing” (niente è impossibile), “perché io valgo”, “voglio il meglio”. Sono alcuni esempi di slogan che sembrano conferirci questa presunta importanza e che comunque ricordiamo e sappiamo collegare senza problemi al rispettivo marchio. Altri ci “potenziano” meno l’autostima, ma rispettano i crismi dell’essere facilmente memorizzabili, come “I’m lovin’ it” (lo sto amando), “what else?” (Che altro?), “connecting people” (colleghiamo le persone).

La politica si sta piegando sempre più alle regole del marketing, rispecchiando la società e le sue metodologie di comunicazione, anche se resta difficile capire chi abbia condizionato chi, più probabilmente causa ed effetto sono concatenate. Gli slogan possono servire, soprattutto quando devi condensare un programma nello spazio di un cartellone.

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“Yes we can” è stato lo slogan vincente di Barack Obama. La vignetta gioca sugli effetti che il marketing ha nella politica

Ma per il resto sono semplificazioni di realtà più complesse e che non possono essere ridotte a una frasetta accattivante. Nell’epoca delle immagini, un ragionamento, un’analisi approfondita, annoiano subito. Per questo anche nei dibattiti, che pure dovrebbero spiegare meglio le idee e i progetti, ci si riduce alla stregua di tifoserie.

Se alimenti la gente solo con slogan rivoluzionari, li possono ascoltare oggi, domani, dopodomani, ma al quarto giorno ti diranno ‘vai all’inferno’”, diceva Nikita Kruscev. Condivisibile, ma poi la Storia gli ha dato torto. Ci siamo abituati a tutto, frasi rivoluzionarie, frasi reazionarie, frasi senza senso, che in ogni caso riflettono l’assenza di contenuti e/o di argomentazioni. Tanto è l’appiattimento, che esistono siti di marketing che ti confezionano lo slogan vincente per la tua campagna elettorale!

Senza fare nomi, si può portare un esempio che coinvolge tutti quanti, perché chi prima e chi dopo, quasi tutte le forze politiche più votate sono cadute nella banalità di dire “aiutiamoli a casa loro”, tema immigrazione. È vero che una soluzione, forse la migliore, sia creare in tutto il mondo condizioni di vita dignitose che non impongano la scelta forzata di scappare dal Paese natale.

Aiutare a casa loro” è una frase vuota ed espressa pure male. Dà l’impressione (o la certezza) che l’unico interesse sia levarci di torno gli immigrati, brutti, sporchi e cattivi, che dà fastidio vedere, ma non sembra mirare a pace, giustizia, sviluppo senza tornaconto, salvo quello di un benessere globale che ci nobiliterebbe come specie.

A parte ricordare la Storia colonialista e la retorica del “non hanno più una casa” – che vale per certe zone di guerra, ma non per altre che hanno “solo” dittature, terrorismo o siccità – non si controbatte mai chiedendo come aiutare a casa loro, uccidendo la discussione per l’ennesima volta. L’Italia non ha risolto i problemi interni, figuriamoci se può essere in grado di sanare mezzo mondo. Sarebbe una pretesa arrogante.

“Aiutiamoli a casa loro” è uno degli slogan più in voga nella politica attuale. Immagine dal video caricato da Wesa Channel

La questione è globale, tutti devono fare la loro parte o senza cooperazione sarà inutile. Non si può dire “aiutiamoli a casa loro” mentre il 2016, per l’Italia è stato l’anno record per la vendita di armi e Donald Trump, oltre a fare accordi sempre sugli armamenti con l’Arabia Saudita, vuole portare gli Stati Uniti fuori dall’intesa sul clima. L’acqua è diventata una risorsa alla pari di metalli preziosi in certe aree, vedi il lago Ciad che si sta ritirando condizionando i Paesi che vi si affacciano.

Ambiente, disarmo, infrastrutture, scuole, università, ospedali, industria, agricoltura, servizi, chi più ne ha più ne metta. Quali sono esattamente le aree di intervento per far sì che l’aiuto a casa loro sia efficace nel lungo periodo e non vantaggioso per le nostre e le loro élite nel breve?

Ovviamente nessuno ha mai dato risposte in materia, semplicemente perché la formula “aiutiamoli a casa loro” è la stessa del “vedremo” quando c’è una proposta che non ci convince o del “le faremo sapere” dopo un colloquio che evidentemente non ha lasciato il segno. Solo un altro slogan per un elettorato cliente.

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